Social media e psiche. Un articolo
L’assenza della corporeità, l’evanescenza dell’Altro
Psicologia Psicosomatica –27 – Pubblicato il 15 Giugno 2014 (Articolo in PDF)
di Andrea Zoccarato e Alberto Zerbini
Quale incidenza hanno sull’uomo contemporaneo le nuove tecnologie e i sistemi di comunicazione virtuali che supportano? Come influenzano i modi di entrare in relazione con l’altro?
Interrogando la trasformazione delle interazioni corpo-mente e “corpo a corpo” indotta dalle nuove tecnologie, una riflessione circa il loro impatto nella società e gli effetti sulle relazioni.
Così vicino così lontano
I recenti sviluppi della tecnologia (informatica, nanoelettronica e delle telecomunicazioni) hanno contribuito in circa due decenni a mutare i concetti di spazio, tempo e relazione, permettendo la creazione di “mondi virtuali” che scandiscono ritmi interattivi prima impensabili. Per avere una misura del fenomeno, secondo un’indagine di Altroconsumo (2013) quasi otto ragazzi su dieci tra i 10 e i 12 anni navigano in internet –soprattutto nei social network – mentre quelli tra i 13 e i 16 anni sono addirittura il 97%. Tra i pochi esclusi spiccano soprattutto ragioni educative: nel 43% dei casi i ragazzi più piccoli non hanno il permesso dei genitori. La linea di confine delle regole sfuma con l’età di passaggio tra medie e liceo (13-16 anni), periodo in cui il divieto vige ancora solo per poco più di due ragazzi su dieci. Interessante notare che l’impossibilità tecnica di accedere alla rete è ormai un problema limitato, ma esiste: tra quelli che non usano internet solo due ragazzi su dieci hanno questa limitazione. Il fenomeno non colpisce solamente i più giovani: per citare un altro esempio di questa importante trasformazione, secondo le statistiche divulgate da http://www.guida-incontri.it in Italia il numero d’iscritti all’omonimo portale per single è passato da meno di 100.000 nel 2000 a oltre 6.500.000 nel dicembre 2012. Il “virtuale” si presenta sempre più come una parte della realtà che è possibile abitare e percorrere con estrema facilità e in tempi molto rapidi.
Partendo da questi dati, ci siamo dunque domandati: quali aspetti delle nuove tecnologie si legano alla costruzione dell’identità? Come incidono sulle relazioni sociali? Quali aspettative soddisfano e quali rischi si corrono? È facile e fin troppo ovvio osservare e ascoltare dalle persone quanto l’ingresso delle nuove possibilità informatiche abbia, passo dopo passo e senza destare grandi sospetti, prodotto contemporaneamente dei cambiamenti nei rapporti umani e più in generale nel modo di condurre la nostra vita. Occuparsi di queste mutazioni e delle loro conseguenze è interesse della Psicologia Psicosomatica, che studia le modalità dello “stare al mondo” partendo da come ogni momento storico determina le variabili fisiche, mentali e contestuali.
Da figli del nostro tempo riconosciamo l’importanza di essere cresciuti all’interno di questa nuova cyber-ondata e di ricavarne forti benefici, tuttavia è necessario osservare con rigore critico alcune rischiose abitudini e facili tendenze che hanno seguito l’avvento e gli utilizzi delle diverse “protesi” tecnologiche.
Esplorando le trasformazioni sociali e psicoattitudinali provocate dagli strumenti tecnologici, vogliamo capire cosa si sta modificando nelle nostre menti e nei nostri corpi, specialmente in quelle dei più giovani, e quanto questo incida nel ridefinire i rapporti interpersonali.
Ecologia personale e senso d’inclusione
Nella quotidianità, le relazioni “indirette”, ossia mediate da supporti tecnologici, sottraggono sempre più tempo alle altre possibilità di relazione “diretta”, che presuppone invece un contatto fra i corpi. La rarefazione della relazione “corpo a corpo” sta delineando nuovi confini tra mente e realtà (Nota I), per cui l’urgenza di un accesso immediato a diversi interlocutori e a differenti tipi di piattaforme digitali (Whatsapp, Twitter,…) ci rende incapaci di tollerare spazi di attesa o importanti momenti di riflessione ed elaborazione. Questo fenomeno non si limita ai cosiddetti “nativi digitali” (Nota II) (Prensky, 2001), ma investe le abitudini di ciascuno: siamo una società che si sta disabituando a pensare, a sostare e a cavarsela con la noia.
L’accelerazione del tempo, favorita dalle potenzialità di strumenti quali smartphone o tablet, pone gli individui nella condizione di essere sempre più reperibili e contattabili. Implicitamente siamo indotti a dover prendere delle decisioni “seduta stante”, soffrendo la sensazione di una vorticosa rincorsa contro il tempo e l’impossibilità di concedersi soluzioni di soppesata qualità, in tempi e nei modi più adeguati. Nell’onnipresenza che la rete ci offre, inoltre, la distinzione tra pubblico e privato tende a sfumare, fino ad arrivare a una vera e propria “pubblicizzazione dello spazio privato” e alla confusione del proprio senso d’intimità.
L’ausilio dei potenti strumenti tecnologici consente all’individuo ipermoderno di potersi altresì esprimere nell’anonimato e a “distanza di sicurezza”. Ciò che per molti rappresenta un alleggerimento delle etichette sociali di antica memoria o una semplificazione dei riti d’incontro, si traduce in alcuni casi in una drastica sterilizzazione delle relazioni, le quali godono e soffrono contemporaneamente di questa nuova natura “virtuale”. Per esempio, notiamo che nelle derive patologiche come i quadri alessitimici, le gravi forme di compulsione e i disturbi narcisistici ed evitanti di personalità, le potenzialità di alienazione degli strumentari tecnologici colludono con alcune difficoltà relazionali e di espressione degli stati emotivi. In questo modo, il rischio d’isolamento e la grande fatica a entrare in relazione con le persone sono compensate e mimetizzate dalle possibilità offerte dai nuovi mezzi digitali: fare qualsiasi acquisto anche dalla propria stanza da letto e calarsi nei diversi tipi di esperienza on demand, evitando così la necessità dell’incontro e quindi d’implicazione con l’altra persona.
Tuttavia, come per ogni sintomo psichico, ciò che rappresenta da un lato un riparo dall’angoscia, dall’altro può favorire la perdita graduale di alcune competenze sociali e affettive.
La stessa potenzialità di questa messa a distanza, inoltre, ha un risvolto paradossale per cui, di fatto, non può essere garantita a nessuno la reale possibilità di mettersi al riparo dallo sguardo ingombrante dell’altro. È ormai diffusa, fino ai più alti piani della politica internazionale, la consapevolezza di un controllo da cui non si possa sfuggire. Ciascuno di noi è rassegnato ad essere rintracciabile e localizzabile, chiamato quindi a rispondere involontariamente a una “presenza costante” e subdola che sostiene le diverse realtà virtuali con cui siamo connessi. Non è facile, all’interno di questa grande rete intrusiva, potersi oscurare e appartare in uno spazio soggettivo protetto ed effettivamente indipendente. Ad essere isolati e impoveriti, dunque, sono soprattutto i corpi, le espressioni emotive e l’uso della prosodia linguistica. Al contrario, gli apparati psichici vivono in un costante invischiamento con le aspettative e le pressioni che la rete porta con sé.
L’identità in assenza del corpo
Le nuove modalità interattive coinvolgono processi radicalmente diversi dalla modalità “corpo a corpo”, caratterizzata dall’utilizzo di una molteplicità di canali comunicativi talmente complessi che nessuna forma di linguaggio riuscirebbe a trasdurre pienamente (NOTA III). Il mantenimento di una struttura dialogica vis à vis prevede la contiguità spazio-temporale dei soggetti implicati nella trasmissione dei contenuti, nonché l’effettivo riconoscimento reciproco. Contrariamente, nelle forme di relazione che non sono della natura dell’incontro “a tu per tu”, assistiamo a un progressivo oscuramento dei connotati di veridicità del potenziale interlocutore. Nelle video-chat la possibilità di condividere un corpo senza odori e senza texture, ridotto a un’immagine bidimensionale, assottiglia l’impatto che l’ingombro della fisicità comporta, facilitando relazioni disinvestite e deresponsabilizzanti che possono iniziare e finire con la stessa inesorabile rapidità. Questo fenomeno cavalca la possibilità di mimetizzarsi nelle ambiguità di un paesaggio, quello virtuale, costantemente aggiornabile e altrettanto volubile, popolato da identità non ben definite, poiché non più confinate entro i limiti della fisicità.
Nei canali digitali il concetto d’identità assume una natura dai tratti indistinti, anonimi e intercambiabili; così il “nome proprio”, per primo, sembra non dire abbastanza, parcellizzandosi nelle infinite e al contempo precarie evoluzioni di nickname e avatar. Attraverso nomi di fantasia, immagini amatoriali, simboli, opere o utilizzando elementi di propria creazione, nei profili dei social network si offre all’Io l’occasione di ri-posizionarsi su un piano sempre più ideale e personalizzabile. Gli incontri su Internet si qualificano come “virtuali” poiché tutto avviene senza che ci sia un coinvolgimento diretto fra corpi, in una raffica di incontri e dis-incontri dalla forma nuovamente compulsiva: distratti e iperstimolati, quindi subito pronti a rivolgersi altrove. Stare in relazione è al contrario saper tollerare elementi di continuità e al contempo di dis-continuità dell’altro, competenze che stiamo perdendo.
Questa deriva fantastica e indubbiamente piacevole per molti aspetti può rappresentare una soluzione nella scoperta e nello sviluppo di un’individuazione più versatile e rassicurante, parte naturale dei processi identitari a cui siamo chiamati fin dai primi anni di vita (per es., attraverso il gioco). Il problema si pone nel confronto con l’altro, anch’esso mutevole, indefinibile e inafferrabile. Cosa potranno dunque costruire e condividere profondamente le nuove generazioni e quali relazioni sociali si vanno configurando?
Lì dove era il corpo a dare con la sua materialità i segni per decifrare la qualità dei messaggi e degli intermediari, oggi nella maggior parte degli scambi la vastità delle possibili intenzioni comunicative subisce un forte livello di depauperamento. A testimoniarlo, per esempio, la pervasiva adozione del linguaggio iconico nei messaggi brevi (sms) e nei post: le emoticons sono ora i “volti” con cui interpretare la ricchezza e le sfumature che si celano dietro al nostro emittente, le sue interpunzioni e i suoi sospiri.
Tutto questo produce nelle piattaforme virtuali il perpetuarsi di un dis-incontro fra i partner della comunicazione, alimentando forme di relazione “deboli” che portano a eludere una reale assunzione di responsabilità per chi vi aderisce. Nella terra senza confini e senza corpi dei social network, in effetti, è possibile condividere parziali elementi della più nuda intimità restando a decine di kilometri di distanza, comparendo e scomparendo in un’anarchia relazionale su cui nessuno può veramente fare affidamento. Strumenti come Twitter e Facebook soddisfano, d’altro canto, la necessità di presentarsi come “qualcuno di unico e d’irripetibile” e, contemporaneamente, tamponano l’esigenza di riferirsi a un “noi” collettivo. Infatti, il social network, nonostante la proliferazione di identità fittizie, ha una valenza sempre più ufficiale di collante sociale (coinvolgendo in primis personalità pubbliche, artisti e cariche dello stato): luogo di estroflessione della vita intima e contemporaneamente canale di affermazione pubblica, l’ufficio dove registrare la propria dichiarazione di “esistenza in vita”.
Il soliloquio individuale si confonde e ritrova in una dimensione collettiva disincarnata, in un “luogo immaginario” che soddisfa una serie di bisogni basilari di relazione e comunicazione in un contesto gruppale di pronto consumo e di altrettanto pronto abbandono.
Sebbene nell’incertezza dei contenuti proposti e dei soggetti implicati, le piattaforme virtuali, dunque, favoriscono la creazione di “comunità psicologiche” che garantiscono una sorta di “prossimità simbolica” personalizzata, accessibile a ogni ora del giorno.
Potremmo così definire i “naviganti” dei “soggetti nomadi” e il mezzo stesso un “oggetto nomade” che, nella progressiva scomparsa dei corpi attraverso cui operare una misurazione della realtà, non permette l’identificazione di un interlocutore affidabile e conoscibile, garante di una effettiva dialettica.
Quali orizzonti
Nelle nostre ricerche quantitative sulla competenza somatica (nota IV), in adulti e adolescenti, presentate in numerosi congressi internazionali, ci accorgiamo che il corpo è sempre meno “frequentato” e per questo sempre più misterioso, a volte incomprensibile. Nei progetti che svolgiamo con studenti e docenti presso le istituzioni scolastiche comprendiamo, inoltre, quanto l’allontanamento dal possedere una padronanza dei codici del corpo produca divari e incomprensioni radicali fra le generazioni. I dislivelli nelle abitudini e negli stili di adattamento dei nuovi ragazzi causa un senso di smarrimento nelle figure deputate alle funzioni educative, quali genitori e insegnanti, che spesso non padroneggiano i nuovi “linguaggi” interattivi. In famiglia come a scuola è difficile che si possa parlare di un’etica delle relazioni sul web o che le nuove esperienze digitali possano essere accompagnate e filtrate da un sapere gerarchico consolidato. Infatti, molte delle nuove ritualità sociali non hanno un precedente, una storia a cui fare riferimento. Questa impasse nella trasmissione intergenerazionale o quantomeno nell’integrazione di un codice condiviso contribuisce a minare la possibilità per i ragazzi di riscoprire e acquisire le qualità di una “mente analogica”, in grado di operare e pensarsi all’interno di un gradiente diversificato e ricco di sfumature non riducibili a elementi puntuali come quelli imposti dalle nuove tecnologie. Nonostante le difficoltà sottolineate, nel nostro lavoro con genitori e figure didattiche, insistiamo sull’importanza di recuperare nelle nuove generazioni, per quanto possibile, modalità di elaborazione che possano integrare pensieri, sensazioni e capacità relazionali, riconoscendo in questa fatica un posto irrinunciabile nell’articolazione di significati e valori più profondi e duraturi. Il rischio, altrimenti, è di produrre una società senza qualità, tutta rivolta a quelle relazioni strumentali (che procurano solamente l’illusione o l’illusoria soluzione dell’incontro), che le realtà virtuali tendono a rendere in un certo modo immediatamente disponibili.
Sul versante clinico, ci accorgiamo che data la difficoltà di stabilire dei criteri di autenticità nella relazione con l’altro, si è progressivamente affacciato un fenomeno di “evaporazione dell’Io” (Scognamiglio, 2011). Questa dis-organizzazione dei rapporti ha effetti nefasti nel lavoro con il paziente, che si mostra perso nella frammentarietà e precarietà relazionale in cui è continuamente avvolto.
Alla luce di tutte queste implicazioni, che suggeriscono di ripensare le soglie di tolleranza e consapevolezza sensoriale e relazionale per l’uomo tecnologico, è necessario in ambito terapeutico non dare per scontati gli automatismi di un ingresso in relazione, ma reinterrogare in primis la questione del setting.
L’intuizione è che con le nuove forme di malessere non sia sufficiente l’utilizzo della parola: riteniamo che il setting debba aprirsi a manovre terapeutiche che si avvicinino al corpo del paziente. Partire dal corpo significa ridare consistenza a un’identità sottoposta alle spinte dissolutrici del web, garantire al paziente una presenza sicura e favorire il recupero di una “focalizzazione somatica” (Scognamiglio, 2009), che è alla base dei processi empatici. L’orizzonte di una Psicologia Psicosomatica è di proporre contesti clinici ed educativi integrati in cui sviluppare l’ “intelligenza corporea”, ossia la capacità di leggere e interpretare i segnali interni del corpo (emotivi, viscerali, propriocettivi) e utilizzarli nella relazione con l’altro. Il corpo con le sue competenze rimangono, dunque, per noi un’indiscutibile strumento di lavoro, una fonte di conoscenza in cui, a differenza della rete, non si cancellano mai del tutto le tracce.
Note
Nota 1. Gli adolescenti usano il cellulare tra le cinque e le dodici ore al giorno. In settimana passano ai videogiochi tra le due e le quattro ore. Un’ora al giorno su Youtube. Sessanta minuti, minimo, sui Social Network ogni giorno. (2010, Ricerca dei vigili urbani della città di Torino su un campione di ragazzi delle scuole superiori).
Nota 2. Per nativi digitali (digital natives) s’intendono le generazioni nate nel nuovo paradigma tecnologico, in particolare coloro fina dai primi di vita interagiscono con mezzi e strumenti digitali.
Nota 3. In biologia molecolare e cellulare, la trasduzione del segnale è la capacità di una cellula di convertire uno stimolo esterno in una particolare risposta cellulare (> recettore). Nella comunicazione è la conversione delle informazioni da un codice espressivo ad un altro.
Nota 4. Da molti anni l’Istituto di Psicosomatica Integrata sta validando una scala sul costrutto di Intelligenza Somatica (Scognamiglio, 2009), ossia la capacità di percepire accuratamente i segnali del corpo, riconoscerli nella loro specificità e saperli regolare. Questo costrutto vuol essere un nuovo modo di misurare l’alessitimia, puntando soprattutto sulla qualità dei rapporti col vissuto corporeo.
Bibliografia
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